SHUHEI MATSUYAMA – LO SPAZIO DEL SUONO INTERIORE
In data 16 aprile 1914 Paul Klee annota nel suo diario di Hammamet « Ora felice (…) il colore mi possiede non ho bisogno di cercare di afferrano. Ecco il senso dell’ ora felice il colore mi possiede per sempre, lo sento. Io sono pittore. »
Questo felice senso di simbiosi tra colore, materia, luce, suono, questo loro essere tutt’ uno col gesto, col tratto, col tocco della mano, col corpo dell’ artista, evoca l’opera di Shuhei Matsuyama. E una simbiosi splendidamente espressa da uno dei principi del cosiddetto «credo del Samurai » (che può ben essere citato in riferimento a chi, come Matsuyama, è anche maestro di arti marziali) «Non ho occhi ; la luce del lampo è i miei occhi ».
È dunque solo in un’ accezione molto particolare che si può parlare di “ astrattismo “ per questo artista, un’accezione in cui Io spirituale e il materiale, la sfera della percezione, arrivano ad identificarsi. “Astrazione sensibile”, è forse l’espressione che più si adatta all’arte del maestro giapponese.
La storia dell’ arte occidentale ci dimostra come lo spirito, in Occidente, si sia prevalentemente rivestito di immagini esterne, illustrative della divinità la spiritualità ha operato sulla fisicità delle immagini, sia pure rivestendole di un valore simbolico, spesso complicato. La radice è il modello greco-romano, legato alla ricerca rappresentativa della figura, del corpo umano.
Nel 787, il secondo concilio di Nicea opta per l’iconodulia, per il culto delle immagini, impedendo l’espansione di una spiritualità incorporea, disincarnata, orientata verso la costruzione pura di una morfologia e di una estetica dello spirito, come quella che si attua nella musica.
È Kandinskij, nel 1910, con i primi acquerelli astratti e con la stesura del testo Dello spirituale nell ‘arte, a interionizzare. completamente lo spirituale quale valore assoluto, teorizzando l’avvicinamento dell’immagine allo statuto della musica, e dando così un nuovo corso all’arte occidentale.
Matsuyama, arrivando dal suo Giappone, sembra captare immediatamente l’importanza dell’eredità kandinskijana, che innesta con grande sensibilità sulle problematiche e le modalità espressive caratteristiche della sua cultura d’origine. Dunque, una profonda ricerca spirituale ma, sulla traccia del pensiero estremo-orientale, mai svincolata dall’universo percettivo, da quella che Nietzsche definiva «la grande ragione del corpo». Già Leonardo, del resto, aveva saputo cogliere, da par suo, la profonda valenza spirituale del corpo umano, che rende impossibile raffigurarlo seguendo parametri puramente materiali e figurativi: « se dipingi un corpo umano non dipingere il contorno o il volume; il corpo umano è qualcosa d’altro ». Pensiero? Luce ? Suono?
Così già Leonardo superava il problema della presenza o non-presenza del corpo umano nell’opera d’arte : il corpo umano diventa vibrazione, essenza spirituale e materiale insieme, mai del tutto rappresentabile con una “ figura “.
Matsuyama fa in modo che il corpo dell’artista e dello spettatore si identifichino con l’insieme luce-colore-linea-suono non rappresenta il corpo umano, non lo rende presente in quanto figura, perchè esso è già presente, non visibile ma sensibile, nella simbiosi con questi elementi. Il corpo è presente in quanto matrice stessa della pittura.
Per ottenere ciò l’artista si serve, in modo molto poetico, di un elemento che Roland Barthes annoverava tra i principali della cultura e dell’espressività giapponese : l’abilità del tocco : la traccia o il ricordo della mano, attraverso la quale il corpo interviene sulla materia, fa ascoltare alla materia la propria consistenza e il proprio peso.
In Shuhei Matsuyama abbiamo in primo luogo l’uscita dalla pura visibilità per recuperare valori sinestetici : la corrispondenza visione-tattilità-suono.
La linea insinuante, netta e tagliente o dolcemente sfumata, che percorre le opere del nostro artista, è generata da un delicato gesto di disegno – scrittura, la cui ambivalenza rimanda, da
una parte, ai valori pittorici della calligrafia estremo-orientale, dall’altra, alle origini del pensiero occidentale : al platonico graphèin, quel «tracciare » della mano che plasma immagini e insieme articola significati.
È una linea che scorre e crea lo spazio, o lo svela, in un’originale compresenza di astrazione e vibrazione sensibile. Forse quella stessa linea che traccia lo srotolamento di un Makimono o di un Kakemono, i pannelli di seta dipinta giapponesi. È una linea che consegna alla sfera dei sensi l’idea del tempo e del movimento, del divenire irreversibile, compiendo il suo infinito cammino, attraversando una tela e prolungandosi nell’altra, in un processo quasi rituale di ripetizione « differente » . Non si tratta tanto di variazione su un tema-quello dell’ascolto del suono interiore-quanto di innumerevoli variazioni che « creano » il tema, seguendo un tracciato infinito, senza sintomi di conclusione ma con infinite risonanze, secondo un rapporto sempre diverso tra linea e colore, inteso a visualizzare l’idea del suono. Per Matsuyama, infatti, ogni cosa, ogni esperienza, corrisponde a un suono, non a un nome.
Fondamentale poi, nella sua opera, è l’importanza della tela e della carta in quanto materiali pieghevoli, simboli del labirintico continuum percettivo, della vita, con il suo ripiegarsi in pieghe infinite
Nel suo bellissimo libro La piega. Leibniz e il barocco, Gilles Deleuze, rileggendo Leibniz, ripercorre la sua teoria del continuo come ciò che non si frammenta in parti, ma si avvolge in un’infinità di pieghe. Il labirinto del continuo non è una linea che potrebbe dividersi in tanti punti indipendenti, come la sabbia si disperde in granelli: è invece come un foglio di carta o un pezzo di stoffa, ripiegabili in pieghe sempre più piccole. La materia – piega è la materia-tempo, ed è la materi -vita, per la sua struttura organica, quasi muscolare “ : la materia piega è, allora, la materia-corpo. Ma la materia-corpo è anche la materia-pensiero : si pensi all’Hèrodiade di Mallarmè, definita da Deleuze “ il poema della piega “, in cui si parla del giallo ventaglio di H~rodiade attraverso l’ardita espressione metafonca “ pieghe gialle del pensiero “. Anche per Matsuyama vale l’identità materia-pensiero, macrocosmo-microcosmo, in una perenne circolazione di energia che il dispiegarsi delle sue linee rappresenta.
l’elemento genetico ideale della curvatura variabile, che caratterizza lo svolgersi della linea in Matsuyama, è l’inflessione, ciò che Paul Klee individuava come punto elastico, ponendolo all’origine di una linea attiva, spontanea, viva. In questo, l’artista giapponese è più vicino a Klee, e più lontano dal cartesiano Kandinskij, per il quale il punto è duro, messo in movimento solo da una forza esteriore.
La materia-piega è la materia-tempo, si è detto: la curvatura della linea che progredisce all’infinito è figura del divenire, del tempo. Ma un evento, per la cultura orientale permeata di buddhismo chan e zen, è anche ciò che in apparenza non comporta un accadere, un trascorrere, è anche una cosa che ci appare inanimata, come la roccia : anche le rocce « devono essere vive », si dice negli Insegnamenti della pittura del Giardino grande come un granello di senape. Tutti i trattati di pittura classica orientale insistono sulla necessità di far circolare bene lienergia vitale o respiro (ki).
Il bravo pittore deve saper far emergere anche il ki di una roccia. E proprio una circolazione illimitata di energia sembra suggerire la tensione creata dal sovrapporsi delle fasce orizzontali nei dipinti di Matsuyama. Una sovrapposizione che è anche specularità: lo specchiarsi di una fascia sull’altra. L’immagine è anche un doppio, un riflesso. La lingua latina esprime molto bene un modo di sentire e pensare secondo il quale anche il riverbero di un suono è immagine: basti pensare al « cuius recinet iocosa nomen imago? » di Orazio.
Vimmagine che varia all’infinito la sembianza della propria struttura, nell’arte di Matsuyama, evoca quell’unico ki universale che si differenzia nei vari esseri.
Vinfinito dispiegarsi della linea rende l’opera completamente aperta, allusiva all’illimitatezza della natura, dunque all’impossibilità di definirla in modo definitivo.
Allora la pittura diventa veicolo di un’esperienza olistica, che ci in-forma sul carattere relazionale dell’universo, sulla sua struttura connettiva, sull’interdipendenza tra le infinite coseeventi che lo costituiscono come una rete di cristalli.

di Silvia Pegoraro