PER SHUHEI MATSUYAMA
C’era una volta… un bambino di quattro anni, che fu accompagnato a trascorrere qualche giorno dalla nonna materna. Non era la prima volta, ma per la prima volta ciò accadeva d’inverno. La casa della nonna, che sorgeva ai piedi d’alcune collinette, secondo il bambino era grande, con un’entrata e un’uscita. L’entrata era quella cui si giungeva dalla strada, attraversando un cortile; l’uscita, sul lato opposto, immetteva in un giardino, circondato da un muretto sovrastato da una rete metallica. Su un lato, un cancello s’apriva sulla stradina sterrata che portava in collina. Il bambino fu molto stupito di non trovare fiori, in giardino, in particolare i gigli che aveva tanto ammirato nella visita precedente. Ottenute le spiegazioni richieste, commentò: “Ah, ecco, anche i fiori stanno dormendo nelle loro tane, come gli orsi”.
Il mattino successivo, una gran sorpresa lo attendeva: era nevicato! Durante la notte era caduta molta neve, tanto asciutta da formare granelli simili a chicchi di riso. Quando s’affacciò in giardino, dove nessuno ancora aveva messo piede, rimase incantato. Proprio in quel momento, anche il sole tentò d’affacciarsi tra le nubi alte, e tutto prese a scintillare. “Sembra d’essere in una grande scatola rivestita d’ovatta.” Anche i suoni giungevano ovattati. Alcuni erano del tutto nuovi: la neve cantava sotto i passi, e frusciava, cadendo dai rami smossi, con un sussurro che sembrava un messaggio dolce e misterioso. Il bambino si chiese se la “grande magia” continuasse anche fuori dal giardino, e si diresse al cancelletto. Sì, la neve era anche fuori, seppure non altrettanto intatta.
Ma sul cancello l’attendeva un’altra meraviglia: una sorta di diadema vi scintillava, qualcosa di simile ad una grande spilla di brillanti. Era una ragnatela coperta di brina, i cui luccichii emanavano bagliori iridescenti. Il bambino contemplò a lungo la perfetta geometria di quella struttura adamantina, e scoprì che essa non era formata da cerchi concentrici, come gli era parso dapprima: a partire dal centro, con la regolarità di un ritmo musicale, ogni tratto s’estendeva impercettibilmente, senza interruzioni, a costruire una figura che in seguito avrebbe appreso denominarsi spirale. La guardò stagliata contro il cielo, e gli parve estendersi fino ad abbracciarlo, mentre i suoi minuscoli luccichii diventavano il firmamento. Provò un senso di vertigine. Lo rivisse una ventina d’anni più tardi, imbattendosi in due frasi che lo colpirono. La prima affermava: “Il microcosmo riflette il macrocosmo”. Compariva a commento di un’altra frase, più sibillina: “Ciò che è in alto è come ciò che è in basso, e ciò che è in basso è come ciò che è in alto”, suggerendo un parallelo tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Con un brivido, l’ex-bambino considerò come la struttura del sistema solare non fosse poi dissimile da quella di un atomo. La seconda ricordava “la silenziosa armonia delle sfere”, richiamando il senso di musicalità che pervade l’intero universo e che si può ritrovare ascoltando talvolta il silenzio dentro di sé, com’egli da poco aveva imparato a fare: un silenzio vibrante, a sorpresa in grado di fornire sensazioni e risposte insperate. Si ricordò anche d’aver letto che “il silenzio è la voce di Dio”, e che per Marguerite Yourcenar “la musica dovrebbe essere solo lo straripare di un grande silenzio”.
Passarono altri trent’anni, ed un giorno tutte le emozioni, immagini e sensazioni vissute in quel mattino di mezzo secolo prima, gli si ripresentarono nette, mentre visitava una mostra d’arte. Erano esposti lavori in prevalenza di medio e piccolo formato: frammenti di preziose veline impalpabili, con tracce infinitesimali di colore emergenti dall’interno, disposte con sapienza a strati su spessi fogli di carta a mano, nella purezza ascetica del loro candore e nel loro sottile gioco di trasparenze, sembravano restituirlo al lontano stupore infantile.
Quel ciclo d’opere, e quindi anche la mostra, recava un titolo ed un sottotitolo. Quest’ultimo era: “Il suono della neve che cade”, mentre l’altro suonava “Shin-on Micromondo”.
N’era autore un giovane artista giapponese, Shuhei Matsuyama. L’ex-bambino rivisse quella lontana magia, l’intuizione che una ragnatela possa diventare il firmamento, e che il suono profondo e penetrante del silenzio possa far vibrare ogni fibra del sé, in sintonia con l’universo intero.
Shuei Matsuyama lavora ormai da oltre un decennio a cicli d’opere sullo Shin-on, vale a dire sui suoni. Questa, la traduzione letterale. Solo che si tratta di suoni interiori, espressioni del Ki, inteso come il respiro dell’universo, l’energia cosmica di cui ognuno di noi è emanazione e cui ci si deve rapportare, in armonia. “Il mio supplizio è quando / non mi sento in armonia”. Armonia in sé, armonia con gli altri, armonia con il Tutto. La sua assenza è un supplizio.
C’è un ulteriore particolare: Shin-on, in giapponese si può scrivere in sedici modi differenti, omofoni, dando vita ad altrettanti significati diversi, ognuno dei quali è compresente agli altri. Se ne può privilegiare un aspetto, se ne possono accostare tra loro alcuni, ma anche gli altri vengono sempre evocati, simultaneamente. E tutti richiamano l’idea di un sentire spirituale che fa da ponte tra la propria interiorità e il Tutto.
La parola spiritualità è pertinente: il misticismo ascetico di Matsuyama non è di natura religiosa, riconducibile ad una confessione specifica o a delle pratiche devozionali. E’ spiritualità, intensa, vissuta, onnipervasiva. Emerge netta anche dal parco impiego d’archetipi che compaiono nei dipinti, senza indugio alcuno. Spesso ricorre una linea orizzontale. In taluni dipinti richiama l’idea di un remoto orizzonte di paesaggio, ma si tratta di paesaggi e d’orizzonti dell’anima che aspira all’infinito. Più spesso la linea è mossa, contorta, ad indicare una continuità, il fluire del tempo, il divenire: del singolo, della storia, delle civiltà, con i loro nodi, il loro ritornare su di sé, per poi riprendere a scorrere, di nuovo verso l’infinito. In talune opere, più raramente, la linea è verticale, ad esprimere forza, la perentorietà di certe scelte, del “destino che bussa alla nostra porta”.
L’arte di Matsuyama è un unicum del tutto personale. Ma chi non volesse rinunciare al piacere intellettuale dell’analisi, potrebbe individuare alcune delle componenti da cui essa deriva. Certi lavori richiamano alla mente antichi dipinti su seta giapponesi e cinesi, intensi quanto lievi. Ma l’artista ha compiuto una grande sintesi, assimilando anche parecchi aspetti dell’arte occidentale. Non gli sono certo estranee le ricerche sulla luce e sull’atmosfericità proprie di Turner e del tardo Monet, né le esperienze di Klee e di Kandinskij sulla resa non rappresentativa di realtà interiorizzate, sulla capacità dell’arte di comunicare senza descrivere, come avviene per la musica. Dall’esperienza dell’Informale ha recuperato entrambi gli aspetti principali, dell’interesse per la matericità e per il lirismo, che trova piena consonanza con la ricca tradizione poetica e artistica giapponese. Tracce d’arte gestuale sono individuabili in certi lavori che ricordano colpi di vento o il movimento delle onde. Il gusto per l’installazione gli ha consentito interventi ambientali memorabili e magistrali, in Giappone come a Venezia, in più occasioni. Un ulteriore aspetto è rilevante, seppure meno palese: il rispetto per la manualità, e quindi per la tecnica, per il mestiere. L’energia, confida l’artista, si manifesta attraverso il gesto, e la continuità dà forza. Per questo è necessaria una ricerca quotidiana attraverso la ripetizione. E’ una forma d’autodisciplina, nell’aspirazione alla perfezione, forse irraggiungibile, ma il cui pensiero consente di migliorarsi via via, fino a che “scatta il salto di qualità”. Non sappiamo quando questo è avvenuto per Shuhei Matsuyama: quel che è palese è che è avvenuto.
Un’ultima annotazione, per concludere: il lungo operare nel campo dei “suoni” non poteva non attirar e l’attenzione di musicisti, che numerosi hanno dedicato a Matsuyama composizioni ad hoc, ispirate alle sue opere, e che a loro volta ne hanno ispirate altre all’artista: a riprova che tutto fluisce eternamente, e che tutto è collegato.
di Pier Luigi Senna