MOTO DEL SUONO
Nella tradizione classica giapponese (e non solo) guardare un quadro equivaleva a percorrerlo con lo sguardo: questo significava non conoscere prima ciò che si andava incontrando, poiché il procedere della visione era progressivo, coincideva con il gesto dello srotolare, svolgere il dipinto (il rotolo, appunto). In quel contesto, l’esperienza dello sguardo era — viandante. Si situava nel tempo, oltre che nello spazio.

Immediata e da esplorare, l’associazione tra l’antico atto dell’osservare (l’opera pittorica) ed il significante viaggio, percorso.

Lo scarto tra quel modo d’esperire il dipinto e la via che attualmente percorre l’osservazione-visione di un quadro di Shuhei Matsuyama, è proporziale alla distanza, alla separazione temporale (situabile nell’antichità rispetto alla contemporaneità), terracquea e culturale tra Oriente ed Occidente, sulle quali l’operare di questo artista ‘tesse’ un ponte, istituendo così una relazione di continuità nella trasformazione tra le due ‘rive’.

“Il sogno della riva, è un’altra riva”
(Edmond Jabès)

La parola ‘ponte’, nell’evocazione di una sua immagine stilizzata, si presta docilmente all’associazione con il concetto di moto, di ‘passare’ o ‘passaggio’ e con quell’elemento visivo che diviene, nelle opere di Matsuyama, ‘centro’ e cuore, vale a dire luogo di percorsi e di viandanti: la linea, e prima di essa così come in essa, il succedersi di pulsazioni che scrivono ritmi ed aritmie, percorsi sonori di antica origine, remoti ed attuali quanto il battito del cuore ed il respiro.

Qualunque sia il punto-momento d’inizio della visione-ascolto di un’opera di Matsuyama, lo sguardo è indotto a farsi nomade, iterando in una direzione o nell’altra lungo il segno-rilievo mutevole e pulsante della linea.

L’atto della visione si fa via, moto che percorre l’apparente spazio immoto del quadro, ed al contempo è condotto, talvolta sostenuto ed incalzato dal farsi corpo, dal divenire materico della linea che emerge con la stessa consistenza e discontinuità di un rilievo dalla ‘superficie’ del quadro, distinguendone due possibili dimensioni, o ‘letture’.
linea – confine d’acqua tra terra e cielo?
Siano esse slanciate e sottili, acute, oppure gravi e dense, luminose e riverberanti fino a squillare o trattenute, contratte e sfumate nel mormorare, queste linee sono iato. frattura dai margini e dall’andatura incostante, tra corpo e suono.

lì suono è tuttavia imprescindibile emanazione del corpo e questo stesso si fa, si tras-forma nell’emanazione del primo.

La linea è a volte corpo di suoni che ‘scrive’ di moti d’acque tra cieli e terre, o del loro riecheggiare visivo e sonoro in mobili specchi d’acqua. Qualche linea sembrerebbe dire del particolare respiro di una città che si colloca tra cieli, acque e memorie, richiami, evocazioni di altre terre…

Nel produrre una sensazione di quiete che tradisce comunque l’inquieta mobilità interna, la linea dal profilo vibrante evoca la natura delle acque fluviali, o dei canali, e… il Suono dell’acqua, un suono fluttuante, che cresce e che avanza.

Essa è confine che unisce e distingue ciò che non può essere diviso: Cielo e Terra. Tra le due dimensioni si fa l’uomo, in quelle linee che sono vie ed insieme orizzonti mai uguali a se stessi.

Inquieti orizzonti dello sguardo del viandante, o di colui che interroga e si interroga.

Tutte le opere di Matsuyama sono animate da questa forma astratta dal reale, risuonante nel colore, ed interiorizzata fino ad assumere differenti valenze simboliche. Esse si presentano come ripetizioni nella differenza, di movimenti e vibrazioni ritmiche o aritmiche ed indicano due percorsi di lettura visiva ed intellettuale, che in questo ‘luogo’ (l’opera di Matsuyama) conducono al medesimo ‘conoscere’.

L’uno concerne quella ricerca che i latini chiamarono ‘reductio ad unum’, ricerca del principio unitario, unificante e sotteso all’articolarsi delle differenze. L’altro è un percorso deduttivo che produce il dispiegarsi e distinguersi delle differenze. Entrambi vanno situati all’interno dell’equilibrio tra segni e spazio visibilmente ~temperato’, proveniente dall’ordine interiore dell’artista, così come nel trasparire del rapporto (quasi sempre sotteso in un’opera) tra intento, progetto ed incidentalità. tra elaborata causalità ed irruzione della casualità nel fare artistico. La differenza nella ripetizione può produrre rottura, ma all’interno di un percorso (la ripetizione nella differenza) che sostiene la continuità.
Quale continuità?
Quella che si scrive nel moto, non certo nell’atrofica stasi di ciò che si ripete senza produrre svolgimento, poiché è necessario non confondere la quiete ordinata e l’equilibrio che sono principale qualità di alcune opere di Matsuyama, con l’immobilità. Il moto è divenire, trasformazione. La continuità è, dunque, in essenza, continuità nella e della trasformazione.

L’ascolto del suono interiore (e da interiorizzare) delle opere di Matsuyama è dunque anche ascolto del moto del suono il quale è antecedente ed insieme intrinseco alla percezione visiva del corpo della linea nello spazio.

Tra la percezione sensoriale di un’opera e la sua articolazione ed elaborazione intellettuale e linguistica, incontriamo spesso uno o più elementi che si traducono in accadimenti poetici e vengono a costituire i fondamenti della struttura significante dell’opera.

Nel lavoro di Matsuyama la poetica delle opere concerne essenzialmente il sempre diverso rapporto tra linea, colore, suono. Rapporto non duale, ma temano, in cui è proprio l’elemento terzo, il Suono, l’invisibile, ciò che è precluso allo sguardo, ad animare il visibile, fino a diventarne il principio ‘poetico che, risalendo al significato originario di ‘poesia’, (parola derivante da poiesis che significa ‘fare’), può elevarsi a principio creativo o, se si preferisce, a principio del ‘fare’ artistico.

Tra i suoni che operano nel farsi di questi luoghi (di questi quadri), è presente il Suono degli dei, e questo permette di introdurre antiche teorie (in particolare indiane) sulla genesi dell’universo in cui proprio il Suono è considerato origine del cosmo. La parola produce le differenze di cui si viene a comporre l’universo, ma ciò che investe la parola di questa potenza creatrice è ciò di cui essa è portatrice e custode, vale a dire il Suono primordiale, che si manifesta semplicemente in vibrazioni ritmiche, in pure qualità sonore.

In quanto principio, il Suono primordiale non ha suono, in quanto potenza creatrice che si fa verbo e si articola in parola, esso è vibrazione e ritmo, percepiti prima della forma.

L’essenza delle opere di Matsuyama è rintracciabile esattamente nella vibrazione e nel ritmo, sia esso armonico o disarmonico, e il linguaggio si fa corpo nell’infinita varietà delle possibili interazioni tra forma (in questo caso principalmente la linea) e colore.
L’energia di quest’ultimo si fa quanto mai prossima alla luce, là dove l’occhio incontra superfici bianche, la cui valenza simbolica è quasi universalmente connotata di ‘purezza.

Strettamente congiunta al colore, ricorre in queste opere la presenza di un altro elemento: la carta.

Nella sua consistenza sottile e nel suo farsi trasparenza, essa è presenza-assenza ora impercettibile ora percepibile; in virtù della sua particolare fibra e delle modalità d’uso adottate dall’artista, pur essendo tecnicamente sovrapposta alla superficie, è elemento che non si separa ma si coniuga al colore. Assimilata al corpo dell’opera, non è in alcun caso riconducibile ad un’impressione o sensazione di pura sovrapposizione, di intento decorativo o di ridondanza.

Nel coniugarsi a forme e colori, essa giunge, al momento della percezione, come elemento che vela e rivela, senza mai produrre offuscamento, l’energia del colore. In quanto increspata trasparenza e sottigliezza, la sua consistenza perde ‘realtà puramente materica ed acquisisce valenza ‘naturale, intendendo sottolineare con questo termine l’antica attitudine giapponese ad investire la natura di valenze simboliche strettamente connesse allo spirito, al sacro, al ‘divino’.

Di volta in volta, la carta potrebbe evocare fumi, nebbie, vapori, trasparire di luce, oppure produrre rarefazione che affina l’atmosfera dell’opera, dominata dall’intensità cromatica e sonora. Talvolta permette un più sottile e completo diffondersi ed espandersi della luce del colore all’interno dello spazio dell’opera. La vibrazione si fa quindi al contempo diffusa, estesa e rarefatta; la carta sottile attenua e riecheggia; oltre il suono, apparentemente associato e circoscritto nella struttura del corpo della linea, essa genera risonanze.

La suggestione della sottigliezza e leggerezza di questo elemento, presenza ricorrente fin dall’antichità in molti riti religiosi così come nella vita quotidiana e nell’arte giapponese, mi induce a rappresentare la cultura occidentale in termini di ‘cultura della pietra, e quella giapponese in termini di ‘cultura del legno, così come ‘cultura della carta. Se la possibile valenza simbolica che noi associamo alla carta è quasi solamente relativa alla calligrafia, allo scrivere o alla grafica contemporanea, occorre osservare che in Giappone la sua valenza simbolica (in particolare nel caso in cui sia bianca) è strettamente ed intimamente connessa allo spirito, alla ‘parte eterna dell’essere’.
Dall’associazione tra forma e colore nasce un alfabeto simbolico che procede da un lato dalla valenza di simbolo che il colore ha assunto universalmente (nelle differenze peculiari a ciascuna cultura o a ciascun individuo), e dall’altro riconduce la potenzialità simbolica del colore stesso (in relazione alla forma) all’elemento terzo già menzionato, all’invisibile suono che fa del quadro possibile luogo da percorrere in ascolto. L’ascolto, se favorito dalla concentrazione e dal silenzio dell’io, permetterà di sentire quella particolarmente intensa qualità del suono e della musica che consiste nel ‘muovere gli affetti. non c’è distanza tra la percezione sensoriale della configurazione forma-colore-suono e l’insorgere dello stato d’animo, del moto dello spirito, generato dall’energia dei colori di linee e segmenti che raccontano nello spazio dell’opera vibrazioni ed inducono alla vibrazione. Mai viene prodotto un segno di conclusione. Stà all’attento osservatore proseguire il tracciato, l’indicazione offerta dall’evocazione sonora e dal suscitare moti (interiori) di queste opere, affidandosi alla propria sensibilità, esperienza, intuizione e capacità di silenzio che va di pari passo con la capacità d’ascolto.

Testimonianza di qualcosa che ‘muove’ l’opera ed è al contempo immanente e trascendente l’opera stessa, il Suono senza suono rimane comunque attivo in essa, quale suo movente primario, elemento terzo che permette l’intuizione sottile del moto e della trasformazione.

L’apparentemente facile leggibilità della simbologia formale e cromatica si rivela gravida dell’invisibile presenza di un suono da ascoltare ‘senza orecchi, da recepire appunto come vibrazione e moto psichico. Il Suono del cuore, il suono interiore.

“Il Tao (‘Via’, ma anche ‘parlare, ‘parole ) all’origine genera l’Uno
l’Uno genera il Due
il Due genera il Tre
il Tre genera i Diecimila esseri

L’armonia nasce dal soffio del Vuoto intermedio.
(Lao-zi)

Monique Sartor